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  • Writer's pictureGiovanni Rizzo

Il cielo sopra Berlino

Updated: Mar 24, 2019

Regia: Wim Wenders, 1987.

Titolo originale: Der Himmel über Berlin

Interpreti principali:

Bruno Ganz: Damiel

Solveig Dommartin: Marion

Otto Sander: Cassiel

Curt Bois: Homer

Peter Falk: Se stesso

Produzione: Anatole Dauman e Wim Wenders; le case di produzione sono Road Movies, Filmproduktion, Argos Films e Westdeutscher Rundfunk Köln.

Durata 128’


“Ali che finalmente mi stupiranno”[1]


Dal noumeno al fenomeno, lasciandosi dietro le proprie ali senza tempo e volando con le ali del desiderio, Wings of Desire. Questa è la storia di Damiel, Bruno Ganz l’angelo protagonista del film, ambientata in una città divisa e ferita dalla guerra. In questo viaggio metafisico, opera di Wim Wenders, osserveremo insieme agli angeli un creato sofferente e dominato dal desiderio, che senza bisogno di narrazione esplicita, ci narrerà la sua storia e le sue pene. Il regista, di ritorno dall’America, riabbraccia le sue radici e grazie alla scandalosa forza rivoluzionaria del suo passato, citando Pier Paolo Pasolini, dà vita a un’opera che ricerca la purezza persa dal genere umano. Come in suoi altri film, ad esempio Paris Texas[2], il protagonista di Wenders cerca una soluzione al proprio disagio attraverso questa ricerca della purezza.

Platone nel suo famoso mito di Er spiega come la libertà di scelta sia collegata all’anima, molti elementi di questo mito possono essere trovati nel Il Cielo sopra Berlino e, di fatto, l’analisi di questi elementi ne accresce di molto il significato intrinseco. L’essenza degli angeli, ovvero enti senza tempo invisibili agli occhi umani e incapaci di capire cosa significa essere vivi, viene rappresentata brillantemente dall’uso del bianco e nero da parte di Wenders; essi vengono posti in una situazione simile a quella delle anime di cui narra Platone, in una dimensione metafisica.


La differenza sostanziale tra il mito e il film risiede nella natura dell’attività degli angeli o anime: nel mito essi viaggiano e vivono per novecento anni nei cieli, invece nel film essi osservano gli uomini, essendo di fatto i testimoni della Storia[3]. Il regista utilizza la figura intera di Damiel all’inizio del film, in cui lo mostra in cima alla rovina della Gedächtniskirche - simbolo di una città violentata dalla guerra – per mostrarci come lui osserva il mondo fisico con le sue ali del desidero sulla schiena. La risposta viscerale che lo spettatore sperimenta si basa sull’attrazione che Damiel ha verso le sofferenze umane e lo spinge a simpatizzare con l’angelo. Tutto questo è spiegato da Damiel stesso nel dialogo che ha con Cassiel nella Cabriolet:

“Vorrei sentire un peso su di me che mi leghi in qualche modo alla terra, vorrei dire ora, non in eterno, supporre invece di sapere sempre tutto, entusiasmarsi per il male”


Il mito di Er è il mito perfetto per questo film perché non presenta similarità puramente concettuali, ma soprattutto tematiche. La tendenza di Damiel verso la fuga, nel film, non è unica né rara: Peter Falk era egli stesso un angelo e secondo quanto dice ce ne sono molti come lui. Marion nel suo discoro finale a Damiel dice:

“Non so se ci sia un fine, ma ci deve essere una decisione, è necessario che tu decida. Deciditi!”


Questo non può che collegarsi con il tema della libera scelta e l’idea platonica di come essa sia origine del destino. Infatti, Nel mito di Er, le Anime una volta finito il loro viaggio millenario[4] devono scegliere il loro destino ovvero il tipo di vita che vogliono avere, ma nonostante la conoscenza del Bene, la maggior parte di loro sbaglia la scelta perché si sono dimenticate le sofferenze della vita.


Damiel nel film ha libertà di scelta e di conseguenza, stanco della sua conoscenza dell’essenza delle cose, decide di sperimentare una vita priva di questa conoscenza. Non è un caso se Damiel, un momento prima di diventare umano, ci è mostrato con un campo lungo tra le due mura che dividono la città, tenuto in braccio dal sofferente Cassiel. Una collocazione che fa trasparire tutto il desiderio ed emozioni di una città divisa nella sua essenza e rappresenta perfettamente il passaggio da noumeno a fenomeno.


Il film riesce a penetrare nello spettatore, che ritorna bambino lasciandosi stupire e meravigliare ancora una volta. Dai sinuosi e leggiadri movimenti di camera tra le nuvole, all’angelica danza della trapezista, non possiamo che arrenderci alla meraviglia. Il vecchio Omero, afferma: “Se mi arrendo adesso l’umanità avrà perso il suo cantore e con esso la sua infanzia”, lui è colui che con il suo narrare ci permette di tornare bambini. Come il vero Omero chiede aiuto alla sua musa, Omero vuole narrare “dell’antico bambino”, ovvero dell’umanità ancora non corrotta e pura. Il passaggio dalla purezza alla corruzione dell’uomo viene enfatizzata varie volte e sembra anche essere la preoccupazione principale degli angeli, che se ne soffrono:

“Quando il bambino era bambino si immaginava perfettamente il paradiso, ora lo sospetta a malapena. Quando il bambino era bambino non si poteva immaginare il vuoto ora ne trema all’idea”.


Questa corruzione è la causa principale della miseria e sofferenza all’uomo. L’inquadratura degli attori attraverso delle sbarre, nel set dell’Olocausto, dipinge questa corruzione come gabbia personale del genere umano. Il regista, attraverso i pensieri di Peter Falk, ci racconta di un mondo sofferente che aspetta la sua redenzione: “La stella gialla vuol dire morte, perché il giallo? I girasoli…Van Gogh!”. In una visione molto cristiana del mondo la nostra mente viaggia fino ai girasoli di Van Gogh e ci ricordiamo della sofferenza del creato in attesa di redenzione.


In contrapposizione a questa corruzione c’è la purezza dei bambini, tema più e più volte rappresentato nel film e punto fisso della narrativa di Wenders. La metafisica del film, supportata dai dialoghi di Peter Handke, è il cuore dell’opera e ciò su cui essa si basa è proprio questa purezza perduta del genere umano che si trova nei bambini. Questa purezza, al contrario degli adulti, gli permette di vedere gli angeli. Per esempio, nella scena dell’aereo l’alternarsi di primi piani della bambina e di Damiel ne è prova. Questa differenza principale tra i bambini e gli adulti risiede nell’immaginazione e nella loro curiosità molto simile al thauma filosofico di Aristotele. Questo tema si trova all’inizio del film, mentre varie immagini di vita quotidiana di una bambina ci vengono mostrate, la voce fuori campo di Damiel recita l’Elogio all’infanzia, poesia di Handke:


Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu? perché sono qui, e perché non sono lì? quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio? la vita sotto il sole è forse solo un sogno? non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro? c’è veramente il male e gente veramente cattiva? come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare, e che, una volta, io, che sono io, non sarò più quello che sono?


La curiosità e la ricerca dello stupore dei bambini li conduce a domande esistenziali oltre a dubitare anche della realtà, prospettiva molto Platonica. Quando questa purezza è persa dal genere umano è quando iniziano le guerre. L’uomo è talmente ossessionato dalla guerra che non riesce a pensare ad altro, come ci viene fatto intendere da Omero: “Cosa c’è nella pace che non si presta al racconto?”. Quando, più tardi nel film, guardando i cortometraggi realizzati agli alleati dopo la liberazione di una Berlino distrutta e dei suoi abitanti in rovina, ci ricorderemo delle parole del vecchio Omero, saremo in grado di capire la vera natura della corruzione umana.


Omero è in continua ricerca della Postdamer Platz, anche se lui sa che è distrutta la cerca comunque; questo perché la Postdamer Platz è il concetto di una Berlino pacifica non una piazza in sé. Il regista rappresenta questa ricerca metafisica con un campo medio del vecchio, addormentato su una sedia, in mezzo al vasto mare di erba che è la piazza. Ora che il concetto stesso di pace è stato scosso alle fondamenta, Omero non riconosce più la sua città, né i suoi cittadini descritti come Stati a sé stanti i cui cuori hanno bisogno di una parola d’ordine per essere aperti. Per questo il poeta cerca la pace nel passato.

“solo le tracce più antiche portano lontano”, dice infine Damiel a Cassiel.


Il personaggio più importante dopo Damiel è di sicuro Marion, la trapezista, motivo principale di Damiel nel suo desiderio di diventare umano. Sia Marion che Peter Falk mettono in mostra il loro corpo per lavoro e così facendo attirano l’attenzione di Damiel desideroso di essere finalmente visto dagli uomini. Peter Falk riuscirà a dare la spinta finale a Damiel, ma la vera causa del desiderio dell’angelo è Marion. Questo è perché lui se ne innamora ed essendo l’amore il sentimento più umano di tutti è inarrestabile. Marion stessa dice: “La mancanza d’amore rende incapaci”. Solveig Dommartin, Marion nel film, fu amante di Wim Wenders stesso, di conseguenza lei rappresenta sia per il regista sia per noi il simbolo di un amore tangibile e umano.


Anche Cassiel dimostra lo stesso desiderio di diventare umano e viene anche lui confrontato da Peter Falk, ma senza successo poiché lui non si è potuto innamorare. Cassiel dimostra di soffrire di questa mancanza di amore nel locale dove Nick Cave suona. Il regista mostra questa sua sofferenza attraverso la fotografia di Henri Alekan, attraverso un piano americano di Cassiel appoggiato a un muro del locale. La molteplicità dell’ombra di Cassiel, creata da un gioco di luci alterne, rappresenta la contraddizione interna che la dualità della sua natura gli causa: Egli vuole divenire umano, ma allo stesso tempo lo trova difficile vista la sua natura angelica e mancanza di desiderio passionale.


Anche Marion soffre, la sua sofferenza la porta ad allenarsi sul trapezio senza rete per combattere la “malattia del tempo”. Il mal di vivere di Marion si avvicina alla voglia di morire; esso, infatti, riflette la società Berlinese e anche quella moderna “troppo cosciente per essere triste” e oppressa dallo scorrere del tempo. La sua sofferenza viene incanalata nell’acrobazia, lei riesce a fluttuare in aria con una grazia di un angelo. Lei è così angelica che Damiel se ne innamora e, per la prima volta nel film, vede la realtà a colori; essa è vibrante e piena di emozioni, lontana dalla noiosa e invariabile realtà monocromatica a cui è abituato.


Il monologo finale di Marion, sensibile e profondo, ci rivela il significato, in sé, del suo incontro con Damiel. Il primissimo piano della stessa Marion è ipnotico in quanto totalizzante, esso possiede grande potenza anche nel rosso acceso del rossetto, simbolo di una passione ardente.


La solitudine di Marion gioca un ruolo fondamentale nella comprensione del suo personaggio. Lei si è sempre sentita sola, ma allo stesso tempo voleva qualcuno con cui poter essere sola. “Solitudine significa: Finalmente sono tutto" questa visione unitaria dell’universo è quasi Parmenidea nella sua essenza, ma prima di tutto cristiana nella sua concezione di perdita e riunione: “Ora noi due siamo più che due solamente, ora noi incarniamo qualcosa. Ed eccoci sulla piazza del popolo” e ancora “Non c'è storia più grande della nostra, quella mia e tua, Quella dell'Uomo e della Donna”. La separazione dell’uomo e della donna, descritta nella Bibbia, è la chiave che ci permette di capire che l’amore non è altro che il desiderio, dell’uomo e della donna, di riunirsi in unico essere[5].


La piazza è un tema ricorrente del film ed è sempre simbolo dell’umanità, in questo caso dell’umanità desiderosa di ritornare un tutt’uno. Ritornando ad esso l’uomo potrà trovare la pace che il vecchio Omero cercava nella sua Postdamer Platz.

[1] Damiel a Cassiel parlando del desiderio di diventare umani. La citazione ricorda il titolo Inglese Wings of Desire (ali del desiderio).


[2] Travis


[3] Una storia di millenarie macerie e rovine, come direbbe Walter Benjamin: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta” W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, pag. 80.


[4] In realtà sono 900 anni nel metafisico più 100 anni di vita terrena.


[5] Lo stesso argomento viene fatto esporre nel Simposio Platonico ad Aristofane attraverso il mito degli androgeni. In esso viene narrato che in origine l’uomo era composto di due corpi uniti, essi furono divisi dagli dei per punire un atto di hubris, arroganza. Da quella divisione in poi gli uomini hanno sempre cercato un’altra metà con cui ricongiungersi (simposio 189 D-193 E).

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